La maschera che è in noi
Oltre la maschera
In questi giorni di carnevale stavo riflettendo su storia e simbologia legati al mondo della maschera. Quello che per noi contemporanei è un semplice travestimento giocoso ha un’origine molto seria.
Oggi le maschere che invadono la città sono dei figuranti, in attesa di essere fotografati. Eppure la maschera nelle civiltà ancestrali era strettamente legata al sacro. Ma ancora nel mondo greco la rappresentazione delle tragedie avveniva nei periodi delle feste religiose. Le maschere permettevano agli spettatori, anche lontani, di identificare subito i personaggi e permettevano anche una maggiore compartecipazione tra spettatore-attore-personaggio, favorendo quello che Aristotele indica come mimesis e catarsi. La tragedia tra e le sue origini dal sacro, dal rito e la maschera è un suo accessorio fondamentale, come lo è per gli sciamani. Se ci pensiamo è con il cristianesimo che la rappresentazione sacra viene totalmente disgiunta da quella profana. Il teatro cessa così di essere un momento celebrativo e liberatorio e viene visto sempre più come una causa di pericoloso atteggiamento dissacrante. L’irriverenza della commedia, la forza della tragedia non sono ben considerate dal potere religioso. Al mestiere dell’attore vengono spesso associati nel corso dei secoli aggettivi che connotano disprezzo: guitti, saltimbanchi, istrioni. Con il teatro elisabettiano si ha un primo rifiorire grazie alla lungimiranza della sovrana illuminata, che, non a caso, in molti circoli europei  viene considerata come la mitica Astrea. In Italia la tradizione sopravvive e si evolve con la commedia dell’arte dove la maschera ricopre nuovamente un ruolo fondamentale. L’oggetto però ha ormai perso la sua sacralità , è diventato la pura icona di un personaggio. Se prima c’era un sottile legame tra divinità e attore, adesso il tutto si è spostato su un piano terreno dove il legame è rimasto solo tra l’attore e quel che interpreta. E così un po’ alla volta la maschera perde il suo significato di mistero per divenire  un semplice celare l’aspetto tanto a teatro quanto nella realtà . Come nella Venezia degli splendori dove la maschera è una garanzia di anonimato nel frequentare le case da gioco. E quante maschere poi indossiamo nel nostro quotidiano? Penso a Kubrick in "Eyes Wide shut" e a come il travestimento sia parte integrante del vivere e dei rapporti interpersonali. L'unica autentica maschera è quella indossata dai bambini che per un magico attimo vivono davvero il mondo del personaggio che interpretano dentro i loro costumi. Loro colgono quel senso di sacralità e di mistero insito nell'oggetto, lasciando a noi i vuoti travestimenti.
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