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Detti veneziani

Modi di dire a Venezia

In tutte le lingue ed in tutti i dialetti sono numerosi i modi di dire e i detti. Fanno parte di una tradizione orale, sono una memoria storica anche se a volte, paradossalmente, non tutti ne conoscono le origini o l’esatto significato. Qui vogliamo solo ricordare alcuni tra i più comuni ed i più usati modi di dire della città lagunare.

A Carneval tute le boche lica: a carnevale tutte le bocche leccano, ovvero in questo periodo dell'anno tutti si possono concedere qualche golosità come frittelle e galani.

 

A Santa Lussia el vento (o el fredo) crussia: il giorno dedicato a Santa Lucia è il 13 dicembre, spesso giornata fredda e ventosa. Il motto celebra la ricorrenza mettendo in risalto che la giornata è appunto particolarmente fredda e con il vento che dà cruccio.

 

Ai tempi de Marco Caco: indica un qualcosa che si usava un tempo lontano. Non è sicuro il personaggio a cui si riferisca il detto, forse è il Marco Cacamo che partecipò valorosamente nel 1214 ad una singolare “guerra” di corteggiamenti tra veneziani e padovani per la conquista di nobili fanciulle che si svolgeva a Treviso.

 

Amarse ma no buzararse: volersi bene ma non prendersi in giro. Il detto popolare puntualizza che in un rapporto, d'amore o di amicizia il fatto di volersi bene comporta anche il rispetto e il mettere in chiaro alcuni punti fondamentali. Si usa anche quando si stringe un accordo con qualcuno per evidenziare che non si cade in tranelli.

 

Andar a Muran senza palanca: modo di dire che si riferisce a chi perde la calma e si infiamma per cose di poco conto.

 

Andar a slofen (o slafen): andare a dormire. Deriva dal tedesco schlafen che significa appunto dormire.

 

Andar a torzio: girare senza meta. Generalmente riferito a persone: el xe andà a torzio, ovvero ha perso la testa.

 

Andar bever unombra: significa andare a bere un bicchiere di vino. L’origine è nell’antica usanza dei veneziani di andare a bere un bicchiere nei pressi del campanile di S. Marco, all’ombra, appunto, del campanile dove vi erano bancarelle, negozi, chioschi.

 

Andar co' la camoma: significa procedere con molta calma. L'etimologia di camoma non è certa. C'è chi la fa risalire a un termine portoghese che indica la bonaccia, condizione che rallenta il percorso delle navi. Altri la riferiscono a una fune da traino, e altri ancora la associano a un termine greco legato al lavoro, sottintendendo che lavorare stanca.

 

Acqua alta in piassa: si riferisce all'usanza, non troppo elegante, di portare i pantaloni con la gamba troppo corta, sopra la caviglia, come se appunto si dovesse attraversare la piazza con l'acqua alta per non bagnarsi.

 

Aver e man de puina (o de moena): avere le mani di ricotta (o di mollica). Si usa quando si perde improvvisamente e senza motivo la presa di un oggetto come se le mani appunto fossero fatte di un materiale mollo e incapace di trattenere qualcosa.

 

Aver ‘na scarpa e un socolo: si dice di chi veste in modo sgraziato, abbinando colori e vestiti in un modo che stona appunto come se si indossassero  contemporaneamente una scarpa ed uno zoccolo. Per estensione indica in generale un abbinamento inopportuno, di mobili, di tessuti o quant’altro crei un contrasto stridente.

 

Aver ‘na testa da marsion: il marsion, ghiozzo in italiano, è un pesce ritenuto di poco valore e non particolarmente intelligente. Da qui l’insulto.

 

Aver un fia de quelo che se dise: avere un poco di quel che si dice. Ovvero avere un po' di senno, di dignità, di decoro. Spesso è rivolto come invito a qualcuno che non si comporta in modo adeguato.

 

Che meca che ti xe: significa esser lento nel compiere un’azione, andare troppo adagio. L’origine probabilmente è legata all’avventurosità e alla lunghezza del viaggio verso la Mecca che compivano, un tempo, i Turchi residenti a Venezia almeno una volta nella vita.

 

Chi che beo vol parer la pele del cu*o che gà da doler: ovvero non si diventa belli, e soprattutto eleganti, senza fatica fisica. Senza allenamento e sacrifici non ci saranno risultati.

 

Chi che no gà testa, gà gambe: il detto si riferisce a chi fa le cose senza pensare e finisce con il dover fare più fatica del necessario. Si usa spesso quando ci si dimentica di qualcosa per distrazione o fretta e quindi ci tocca ricominciare dall'inizio quel che si stava facendo o ritornare indietro a riprendere quel che si è dimenticato.

 

Co l'acqua riva al dadrio, tuti impara a nuar: ovvero, quando l'acqua arriva al sedere tutti imparano a nuotare. Il detto popolare mette in evidenza che in caso di emergenza tutti imparano ad arrangiarsi.

 

Co’ la m**da monta in scranno, o la spussa o la fa danno: la sapienza popolare asserisce che chi raggiunge posti importanti senza particolari meriti, finisce o con il puzzare, cioè con l'essere vanitoso e arrogante, oppure con il fare danni. Nel significato è simile al proverbio "Chi di gallina nasce, convien che razzoli".

 

Desmentegarse dal naso ala boca: significa avere poca memoria. La locuzione ironizza sul dimenticare quanto si è detto o fatto nel breve percorso che intercorre dal naso alla bocca.

 

Dighe a Toni, perché capissa Bepi: dillo ad Antonio perché capisca Giuseppe. Il motto si usa quando, per far capire a qualcuno che ha un comportamento sbagliato, se ne mette in rilievo l'errore attribuendolo però ad un altro e quindi non coinvolgendolo in prima persona. Si spera però che l'interlocutore capisca l'antifona.

 

El dotor lucamara che più el studia e manco el impara: si riferisce a persona che studia senza profitto, che passa il tempo sui libri senza imparare, con la testa altrove. La lucamara o dulcamara è una solenacea dal gusto appunto doce amaro.

 

El va e el vien come el vin de Cipro: si dice di una persona inconcludente, che cambia spesso opinione e non porta a termine nulla. Si riferisce al pregiato vino di Cipro che non sempre era, come si direbbe oggi, doc. Spesso infatti partite di vino  di non particolare qualità partivano dall’Italia, passavano per Cipro e tornavano indietro fingendo di essere lì prodotte.

 

El xe grando nela storia dei picoli: tipica espressione rivolta a persone presuntuose e altezzose che si ritengono importanti. La saggezza popolare li ridimensiona, rapportando la loro importanza alla storia sì, ma non dei grandi personaggi bensì dei piccoli e sconosciuti.

 

El xe nato stanco e el vive par riposar: si dice di una persona indolente, che non ha voglia di affrontare nessuna fatica.

 

El xe un tagiatabari: il detto si riferisce all’usanza dileggiatrice, nel ‘700, da parte di alcuni giovani di tagliare il tabarro (mantello) di un passante, a sua insaputa, per renderlo ridicolo e sbeffeggiarlo. Per estensione essere un tagiatabari ha ancor oggi il significato di parlar usualmente male alle spalle di persone assenti.

 

Esser come la betonega: ovvero conoscere tutto di tutti e intromettersi sempre negli affari e discorsi altrui, come la bettonica, un’erba infestante.

 

Essere in piassa: essere in piazza. Si riferisce ironicamente a chi ha perso i capelli e ha la testa lucida come la pavimentazione di una piazza.

 

Esser sempre in mezo come el zioba (o come el parsemolo): sempre in mezzo , come il giovedì (o il prezzemolo), si dice di persona che si intromette sempre nei discorsi altrui, spesso a sproposito.

 

Esser sempre sora acqua: stare sempre sopra l'acqua, si dice di chi vuole sempre mettersi in evidenza e vuole ad ogni costo dire la sua.

 

Far e be'e be'ine: far le belle belline, è il comportamento troppo cerimonioso e cortese, e chiaramente interessato, di chi sta cercando di accattivarsi il favore di qualcuno per ottenere qualcosa.

 

Filar caigo: si dice quando una persona continua con ossessione a rimuginare su qualche fatto che gli è accaduto.

 

Ghe xe più giorni che luganega: il detto popolare invita al risparmio e ad evitare gli sprechi perché il tempo della vita è lungo e le provviste di risorse, se non oculatamente usate, finiscono.

 

Gnanca el can mena la coa par niente: neppure il cane muove la coda per niente. Come l'animale spesso scondinzola per avere una carezza o qualcosa da mangiare, così il detto ritiene facciano anche gli umani. Nessuno cioè fa niente per niente.

 

Gò tanta fame che magnaria un bo’ co i corni e tuto: si dice quando l'appetito è davvero tanto, magari dopo una giornata di lavoro o una sfaticata. La fame è tale da mangiare un bue intero comprese le corna.

 

Grasso chel dindio: letteralmente grasso quel tacchino. L'espressione ironica viene usata quando si riceve un regalo o un favore di poco conto.

 

I vovi xe boni anca dopo Pasqua: le uova sono buone anche passata la Pasqua, come dire che i regali, anche se arrivano in ritardo, sono sempre bene accetti.

 

L’acqua marsisse i pali: si dice quando a un pranzo qualcuno rifiuta un buon bicchiere di vino. A Venezia infatti tutti sanno che l’acqua fa marcire i pali e così è ironicamente dannosa anche per chi la preferisce al "goto de vin".

 

L’amor no xe brodo de fasioi: l'amore non è brodo di fagioli, cioè non è una cosa da poco. Il detto ricorda che l'amore è un impegno e un coinvolgimento.

 

La fame xe compatia: la fame è compatita. Si usa generalmente in presenza di un bambino che non riesce ad aspettare l'arrivo della minestra ed inizia a spiluccare quel che trova in giro.

 

Mai note no’ fa: non fa mai notte! Si usa per prendere in giro bonariamente che nel fare qualcosa di poco impegnativo vuole dare invece l'impressione di lavorare molto.

 

Megio suar che tossar: un detto presente in molte lingue. La saggezza popolare ritiene che sia meglio sudare che tossire, ovvero meglio coprirsi che rischiare di prendere freddo con gli accidenti che ne conseguono.

 

Monta qua che ti vedi Verona: il detto si accompagna al movimento del dito indice che va ad appoggiarsi sulla punta del naso. Segue una richiesta impossibile da accontentare, come è impossibile che salendo sulla punta del naso si possa vedere Verona.

 

Nisuni t’ha dito gobo: nessuno ti ha detto gobbo. La frase si usa quando qualcuno si offende senza motivo, magari dimostrando una coda di paglia.

 

Oca e pito fa bon brodo: ovvero oca e tacchino fanno un brodo gustosa. Il detto si usa nel fare il verso ironico a chi risponde in modo meccanico, ma senza essere convinto, ad una osservazione o ad un rimprovero con "ho capito".

 

Par i orbi no xe mai giorno: modo di dire delle persone con poca vista che sottolineano come per chi non ci vede non c'è mai abbastanza luce.

 

Pezo el tacon del buso: peggio la toppa del buco. Si dice quando il tentativo di risistemare qualcosa è peggio del danno iniziale.

 

Perso pal caigo: perso nella nebbia, si dice di persona distratta, che non presta attenzione a chi e cosa ha attorno.

 

Qua, qua fa le anare: è il seguito alla risposta banale qua dopo la domanda dove ti xe o dove xe lo. Qua non significa nulla, se la persona non è a portata di vista è necessaria una indicazione più precisa. Qua, qua lo fanno le anatre...

 

Qua no se imbarca cuchi: qui non si imbarcano sciocchi. Si usa per avvertire qualcuno che sta tentando di prenderci in giro che abbiamo capito il suo gioco.

 

Quelo che no sofega, ingrassa: quel che non soffoca, ingrassa. Il detto è rivolto alle persone schizzinose nei riguardi del cibo, in particolare alcuni bambini. Per invitarli ironicamente a mangiare tutto ciò che di commestibile trovano nel loro piatto senza fare tante storie.

 

Salute, bessi, basi e tempo da goder: augurio, che si fa normalmente a chi stranutisce, di salute, denaro, baci e tempo per poterseli godere.

 

Samarco par forsa: ovvero, S. Marco per forza. Indica un’azione inevitabile, un qualcosa di cui non si può fare a meno e l’origine è l’impossibilità, per un foresto che venga a visitare Venezia, di non passare per piazza S. Marco, meta privilegiata.

 

Sapa pian, spensi gualivo: zappa piano, spingi altrettanto piano, si dice di chi lavora con poco entusiasmo, con lentezza esasperata.

 

Scoa nova, scoa ben: la scopa nuova pulisce bene. Il detto si riferisce a molte situazioni che all'inizio sembrano idilliache ma non si sa come proseguiranno nel futuro. Come la scopa nuova che pulisce bene ma con il tempo si usura.

 

Se la raneta gavesse i denti...: se la piccola rana avesse i denti cosa farebbe? Il detto è rivolto a chi, se potesse, si comporterebbe in modo diverso, vuoi più aggressivo o più sfarzoso.

 

Sensa schei neanca l’orbo no’ canta: si riferisce all’usanza in voga nei tempi antichi di elargire elemosine a portatori di handicap che per ringraziamento si esibivano in canti. Il modo di dire indica che nessuno fa nulla per nulla.

 

Somegiarghe ai suoi no xe mai mal: non è male somigliare ai propri parenti. Il detto ritiene un fatto positivo mantenere tradizioni e usi dei propri ascendenti.

 

Te cognosso mascarina: ti conosco mascherina... come dire che non basta una maschera per celare le vere intenzioni.

 

Te fasso veder mi che ora che xe: si tratta di una minaccia che si riferisce all’uso di porre i condannati tra le due colonne di piazza San Marco in modo che vedessero bene l’ora sull’orologio della torre di San Marco prima dell’esecuzione.

 

Te gò dove che la galina fa cocò: modo figurato per dire a qualcuno che ha superato il limite e che è diventato fastidioso e insolente, causando una perdita di stima che lo avvicina al posto dove la gallina fa le uova…

 

Ti ridi ti che ti sa nuar: ridi pure tu che sai nuotare, si riferisce a persone che ridono o ironizzano su un qualcosa che per un altro è un impegno ed è una novità ancora da scoprire.

 

Tira su che Venessia se nega: è un modo di dire che si usa quando qualcuno, specialmente un bambino, continua a inspirare rumorosamente con il naso perché magari è un po' raffreddato. Lo si invita a tirare su perché Venezia non venga allagata.

 

Trovarse tra Marco e Todaro: si dice di persona che si trova in gravi difficoltà, riferita all’usanza in voga nella Serenissima di allestire il palco delle esecuzioni dei condannati in piazza San Marco tra le due colonne dette appunto di Marco e Todaro.

 

Un alto e un basso fa un gualivo: teoria della media consolatrice, unendo due cose una positiva ed una negativa si ottiene una via di mezzo accettabile.

 

Voria ma no posso: vorrei ma non posso. Si usa quando qualcuno si comporta imitando nel vestire o nel modo di fare persone ricche o importanti. L'imitazione è però palesemente fatta con poco gusto e poca eleganza.

 

Xe come ciuciar un caenasso: frase associata al parlare con qualcuno senza trovare soddisfazione. Il paragone è con il succhiare un pezzo di ferro, cosa che indubbiamente non può soddisfare.

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