Dalla parte del lettore (e dell’editore)
Io, speriamo, che me lo pubblicano...
Da qualche tempo faccio parte del comitato di lettura di un paio di piccole case editrici e ho pensato di trarre un primo bilancio. Mi è arrivato svariato materiale da leggere, di tutti i generi: dal romance al fantasy, dal thriller all’erotico. Devo dire che sono francamente stupita dalla scarsa qualità dei lavori. Su una ventina di opere una era decisamente oltre la media, curata nella forma, nella trama, nel linguaggio, insomma piacevole e fruibile. Un paio erano tra l’accettabile e il discreto. Tutto il resto aveva grossi problemi a tutti i livelli.
Il primo livello che ho visto non funzionare è quello di ortografia, punteggiatura, grammatica e sintassi: “pò” che si sprecano, concordanze verbali che mancano, anacoluti che abbondano, virgole che a volte diventano un’ossessione… Dal mio punto di vista la mancanza di una forma corretta è un primo grave rallentamento della lettura. E quando gli errori diventano frequenti, si parla di errori e non di semplici refusi, comincio a innervosirmi e a provare una sensazione sgradevole.
Come se non bastasse accade poi di frequente che, in un linguaggio povero e sgrammaticato, compaiono come perle dei vocaboli desueti o dall’apparenza colta, magari usati a sproposito. Probabilmente dovrebbero, nell’intenzione dell’autore, impreziosire il racconto e invece creano solo un effetto grottesco destinato a incrementare il senso di fastidio nella lettura.
Il secondo livello dove ho riscontrato gravi carenze è quello dei personaggi e dei dialoghi. Il punto qui è delicato, non è facile creare personaggi credibili, con personalità diverse e modi di esprimersi e muoversi diversi. Certo che farli parlare tutti allo stesso modo con lunghi monologhi non è un buon segno.
Il terzo livello zoppicante è quello della trama. Trovare un plot originale che funzioni in modo ineccepibile è raro. Per lo più si tratta di elucubrazioni contorte che non hanno un unico e ben definito filo conduttore. Gialli che si risolvono grazie a confessioni spontanee di terzi, romance travestiti da fantasy con nomi improponibili e situazioni ancora più improponibili, polizieschi ambientati in città reali mai frequentate dall'autore che inventa i luoghi anziché documentarsi seriamente.
Sono giunta così alla conclusione che chi scrive spesso non si pone minimamente il problema di rileggere con attenzione il proprio lavoro e tanto meno di farlo leggere a qualcuno che abbia una vaga conoscenza della lingua italiana e di come si costruisce una storia. Molti scritti assomigliano a una versione allungata di un tema di scuola elementare, con le stesse imprecisioni, ingenuità e scorrettezze.
Non basta riempire un foglio bianco con una sequenza più o meno casuale di parole per definirsi scrittore e certo non porre attenzione a correttezza formale, trama, ambientazione e personaggi non è una buona partenza. L’autocritica dovrebbe sempre essere la prima forma di controllo. Dopo aver scritto anche solo poche pagine dovremmo chiederci se quello che abbiamo fatto è prima di tutto leggibile. Se non siamo in grado di deciderlo, e non distinguiamo un congiuntivo da un passato remoto, forse è il caso che cambiamo hobby.
Ad esempio a me piace strimpellare la tastiera, suono come si dice “a orecchio”. I miei limiti li conosco bene, per lo più suono in cuffia per non importunare i familiari presenti, e non mi sognerei mai di eseguire in pubblico le mie “performance” perché ho il senso del ridicolo. Perché, allora mi chiedo, molti che non conoscono l’italiano e non sanno come è strutturato un romanzo scrivono quintalate di pagine e hanno pure il coraggio di presentarle a una casa editrice? O in mancanza di quest'ultima si autopubblicano? Per me resta un mistero. Ed è un mistero che poi sedicenti blogger che si occupano di libri ne parlino pure bene... Ovvio che non tutti possono aspirare a diventare Calvino, Tolstoj o Mann e non lo si pretende. Si pretenderebbe solo che chi scrive fosse un modesto e onesto artigiano della parola. Forse è chiedere troppo?
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